sabato 25 febbraio 2017

Buonismo da strapazzo

Nel corso di una serata cosiddetta di beneficenza per un’associazione che si occupa di ragazzi con problemi (diciamo chiaramente: handicap), ho ascoltato ancora una volta, come in altre occasioni, una delle persone intervenute a parlare, che diceva più o meno questo: “I ragazzi con autismo sono speciali, meravigliosi, hanno tante capacità, hanno tanto da insegnarci, e noi dovremmo entrare nel loro mondo, trovando le modalità comunicative più conformi alle loro caratteristiche e alle loro esigenze, per poter metterci in rapporto con loro…”
Ebbene, rispondo NO, non sono d’accordo con questa visione buonistica, fiabesca, poetica, ma tanto lontana da una realtà che io vivo quotidianamente, e che forse, tanti di quelli che parlano come descritto sopra, conoscono solo in piccola parte, di riflesso, di poetismo, ma non di realismo.
A queste persone che parlano di “entrare noi nel mondo degli autistici”, vorrei far sentire ciò che ascolto ogni giorno da genitori disperati, i cui figli autistici non parlano, non comunicano, si picchiano sulla testa, gridano e piangono per tante ore, ruotano continuamente le mani, non guardano negli occhi, si fanno la cacca addosso, non stanno fermi un attimo…
Vorrei far sentire le preghiere disperate dei genitori di questi bambini, che mi chiedono e mi implorano di tirar fuori i figli dall’inferno dell’autismo.
Ma davvero credete che gli autistici siano tutti bimbi belli, dall’aria angelica, capaci di disegnare in modo meraviglioso, e che vivono felici nel loro paese delle meraviglie?
Venite a vedere quei numerosissimi autistici che invece sputano, gridano, si mordono le mani, hanno dolori e impazziscono non solo per le sofferenze fisiche ma anche perché non possono dirlo, e non perché non vogliono, ma perché non ne hanno i mezzi. Ed io anziché cercare disperatamente di insegnare loro a parlare, dovrei “entrare nel loro mondo”, perché sono tanto bellini e carini, e possono insegnarci tante belle cose?
Ma scendete da quei piedistalli di ignorante buonismo e finto poetismo, venite a vedere che maledetto dramma è l’autismo, e soprattutto andate a chiedere a quei genitori che farebbero di tutto perché il loro figlio parlasse, che cosa pensano delle vostre teorie rosee e idilliache!
Sono trent’anni che studio, lotto, mi impegno a combattere questa malattia e altre simili, e soltanto quando dopo sacrifici e sforzi ben diversi dal “penetrare nel mondo chiuso di chi non parla e non comunica”, sono riuscito a veder cambiare tanti bambini che vivevano in quello stato da incubo, e ho visto finalmente sorridere anche i loro genitori, mi sono reso conto di aver compiuto qualcosa di buono, ricordando una frase che ho sempre fortemente condiviso: “Se mi ami davvero, non accettarmi come sono”. 

venerdì 3 febbraio 2017

Non una logopedia qualsiasi, ma Logopedia


Non è una distrazione tipografica aver scritto la parola logopedia, la prima volta con l’iniziale minuscola, la seconda con la maiuscola.
Mi riferisco molto specificamente e chiaramente a ciò che dico alla fine di ogni visita foniatrica quando indico la necessità di un intervento logopedico.
Solitamente il paziente, o la famiglia del bambino che ha bisogno di questo tipo di presa in carico, mi chiede dove possa trovare il più possibile vicino alla sua abitazione, un operatore o un centro di logopedia a cui rivolgersi. Domanda tutto sommato legittima, considerando la necessità di ottimizzare tempi e distanze da coprire, in una vita che ormai per tutti ha ritmi incalzanti e agende sempre piene di impegni.
Eppure devo necessariamente soffermarmi su una distinzione fondamentale per la buona riuscita di un trattamento abilitativo riabilitativo.
“Non una logopedia qualsiasi”, “Non una logopedista qualsiasi”, sono solito aggiungere; ma una Logopedista con la L maiuscola, perché il recupero di un bambino con gravi (o anche meno gravi) patologie, passa necessariamente attraverso un lungo, intenso, e ben sfruttato periodo di lavoro di alta qualità e professionalità.
Se parliamo di autismi, di paralisi cerebrali, di disturbi del linguaggio e della comunicazione collegabili a turbe comportamentali, non basta, come si suol dire, “qualche seduta di logopedia”, ma una presa in carico tempestiva, intensiva, e affidata a una o più figure professionali altamente competenti, esperte, e disposte a una grande abnegazione. Questa specifica non è un accessorio opzionale, ma una condizione senza la quale non si possono coltivare molte speranze e aspettative di risultati.
Naturalmente, la posizione che sto assumendo al riguardo, preclude la mia disponibilità alla collaborazione con una altissima percentuale di operatori della riabilitazione, ossia quelli che hanno scelto il mestiere di logopedista, psicomotricista, educatore, per trovare subito un lavoro a impiego fisso in un centro di riabilitazione che garantisca più o meno lo stipendio a fine mese, contando più sui numeri dei casi presi in carico, piuttosto che sulla reale qualità e capacità di intervento da parte del dipendente, così come sulle reali possibilità di ottenere risultati al di là di qualche sporadico miglioramento di alcuni aspetti del profilo comunicativo di un bambino autistico, perché “tanto dall’autismo non si guarisce”, come diabolicamente si continua a sostenere da parte di molti, forse e soprattutto perché è più comodo farsi scudo di questa affermazione per giustificare una preliminare presa di distanze dalla possibilità di ottenere grandi risultati, piuttosto che mettersi in gioco su un terreno difficilissimo, dove altri, però, hanno ottenuto successi maggiori.
Altri, che invece non sono i “mestieranti”, ma i “professionisti veri” della riabilitazione, della Logopedia (questa volta con la L maiuscola).
Quanto sto esprimendo e dichiaro quotidianamente, mi rende alquanto impopolare e scomodo, anche antipatico, potremmo dire; ma sono solito anche ribadire che il mio cliente è il paziente, ed è nel suo interesse che devo parlare, suggerendo senza inutili acrobazie diplomatiche, ciò che veramente può risultargli utile.
Conosco bene le realtà che ci circondano, non commetto l’errore di fare di tutt’erba un fascio, ma non chiudo neppure gli occhi davanti alle centinaia e centinaia di volte in cui ho visto logopedisti (la maggior parte, non ci si offenda se lo dico) preferire la comoda strada dell’impiego a posto fisso e stipendio fisso, dove non viene richiesto altro che puntualità e raccolta di firme di frequenza presso il centro, piuttosto che la meno comoda e più impegnativa strada del costante aggiornamento professionale (non quello del commercio degli ECM, altresì definiti crediti formativi); aggiornamento basato invece su un vero studio e approfondimento di ciò che realmente occorre per migliorare se stessi, ponendosi costantemente in discussione, confrontandosi, e accettando di prendere in carico patologie sempre più difficili e impegnative, senza nascondersi dietro frasi del tipo “il bambino non è pronto per la logopedia”, oppure “tanto da questa patologia non può venir fuori”.