mercoledì 4 aprile 2018

L'innovazione e la verità che spaventano


Questo sarebbe stato un capitolo del mio ultimo libro recentemente pubblicato, ma non l’ho inserito insieme agli altri su carta stampata, per delicatezza verso persone e situazioni cui mi riferisco, che sicuramente hanno ispirato i contenuti che sto per descrivere, ma che allo stesso tempo non volevo clamorosamente criticare in modo tanto ufficiale e ad ampia diffusione. Se però ho deciso di rendere comunque noti, fatti e commenti al riguardo, è per dare spazio al mio spirito di informatore, formatore, critico, e libero di esprimere i miei pensieri.

Titolo prescelto: L’INNOVAZIONE E LA VERITA’ CHE SPAVENTANO.
Il riferimento è un centro di riabilitazione di una città di una regione solitamente da me non frequentate, dove fui chiamato come consulente per visitare, redigere diagnosi, approntare piani di trattamento, affiancare, supportare e guidare il lavoro dei terapisti, come solitamente accade ed è accaduto in tanti altri centri italiani e stranieri, da trent’anni ad oggi.
Dopo poche giornate di presenza nel luogo in questione, non fui più chiamato a svolgere le mie consulenze, ed alla mia meravigliata domanda (rivolta ad una neuropsichiatra con la quale mi intesi subito, e dimostratasi di intelligenza più evoluta degli altri) su come mai ci fosse stata questa brusca interruzione di rapporto professionale, fu risposto che la decisione di non chiamarmi più, presa dalla dirigenza del centro, era riconducibile essenzialmente ai seguenti motivi:
  1. Le mie diagnosi erano troppo… dure. A famiglie di bambini con autismo (cioè la maggior parte) dicevo che il loro piccolo aveva, appunto, questa affezione; e a quanto pare, una diagnosi del genere era considerata un’offesa.
  2. Alla mamma di una bambina autistica (che, anche in questo caso, non avrei dovuto definire tale) dissi che anche la sorella, presente alla visita, e visibilmente violenta, non verbale, ingestibile, iperattiva… aveva “qualche problema”, e pure questo fu considerato un grave oltraggio.
  3. Avevo garbatamente rifiutato di indossare un camice nel visitare i bambini, ma preferivo farmi trovare in camicia e gilet, per meglio sedermi a terra o a tavolino, vicino a loro, ed interagire anche giocando, senza dare l’impressione di trovarsi davanti al “dottore”, tradizionalmente incutente timore.
  4. Avevo consigliato ai logopedisti di togliere a loro volta il camice, e di non svolgere tutta la seduta di terapia davanti a un pc, con qualsiasi tipo di bambino e da qualsiasi patologia fosse affetto; esortandoli quindi ad alzare più spesso il sederino da quella sedia fissa davanti al computer, e trasferirsi col bambino, a terra, davanti a uno specchio, in una sala più ampia, con materiale più vivo, più creativo, più individualizzato…
  5. Avevo proposto una riunione di discussione dei casi clinici visti, e dei piani di terapia; ma questo evidentemente turbava le pianificazioni di orario di vita degli operatori.
     
    Dunque, esistono ancora molte persone e molti luoghi, dove non trovano posto le verità scomode, la voglia di innovare un lavoro anchilosato su schemi obsoleti e non produttivi, l’entusiasmo di andare avanti.
    Ho voluto ugualmente diffondere questo breve scritto, con la speranza di aprire qualche occhio chiuso, qualche cervello ancora dormiente, qualche assopito ma non morto spirito di apertura verso ciò che può significare un cambiamento in meglio.Centri come quello che ho descritto, ce ne sono e ce ne saranno sempre. Mi dispiace per chi ci resterà dentro, soprattutto per i bambini. 

1 commento:

  1. Palese che avete opinioni della professione e della patologia a distanza siderale. La collaborazione sarebbe stata solo tempo perso per entrambi. Per il centro e soprattutto per i pazienti si tratta di un'occasione mancata. Ad maiora

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